martedì 21 aprile 2020

PAMPINO



fotomiafattadame



Viviamo in un appartamento di un palazzo definito dall’agente immobiliare “ben abitato”, con tutti i sottintesi del caso. I condomini sono per la maggior parte signori ormai in pensione che hanno acquistato quando il palazzo è stato costruito, signori e signore in maggioranza gradevoli, sorridenti e accoglienti. A parte qualcuno che stireresti quando togli la macchina dal garage, ma ci sta avendo più di 50 appartamenti. Noi, guidati dalla stella polare della fortuna, siamo finiti sotto una delle rarissime coppie ancora in grado di procreare. Il procreato non è un figlio ma l’intero Circo Togni, acrobati compresi. Interpellato Monsignor Milingo, si è ritirato a vita privata e si rifiuta di collaborare. 
Non sto qui a descrivere e a giudicare: a volte le persone, anche quelle in miniatura, necessitano di maggiore comprensione. Oltre la media. E noi comprendiamo. Tanto. Comprendiamo tanto, tanto, tanto. 
Comprendiamo anche la notte quando la madre mette su il tallone da flamenco e fa il giro della casa avanti e indietro. Ma questo lo comprendiamo un po’ meno.

Ora però quando in televisione viene reclamizzato un energizzante da usare anche in tempo di distanziamento sociale, perché chi lo ha detto che stare a casa non stanca?, e ci informano che ne esiste anche la versione per poppanti, voi capite che è normale che a me salga la carogna.
Poi mi passa, ma lì per lì sale, almeno fino al piano di sopra. 

Visto che lo spot passa in continuazione spero solo che l’educatore abbia vietato l’uso della tv a tutta la famiglia, altrimenti tocca emigrare.

Già in questo condominio sono mancati da subito cantanti, suonatori e fini dicitori ai balconi e di questo mi lamento, mi manca solo che per disperazione debba finire in cronaca nera. Nel frattempo il piccolo lo abbiamo soprannominato Pampino, come un nazista in miniatura, mentre la madre è semplicemente... Non ve lo dico. Fate voi a vostro piacimento.

Nella pagine dei quotidiani potrei finirci invece perché, riconoscendomi come un intruso, la signora del piano terra che da un anno e mezzo mi chiede sul portone: “Ma lei abita qui?”, mi ha fatto secco a badilate. Non è una questione di mascherine indossate oppure no, non mi riconosceva neppure un mese fa. Tutto bene, uno si identifica e sale al piano. Se non fosse che dopo l'interrogatorio la signora parte con lo spiegone sul numero dei figli, sul loro stato civile, professione, tempi e frequenze delle visite che le fanno e, come non dirlo a chiunque, sa io abito qui da quando hanno costruito. Pare che questo sia un trofeo da aggiungere al medagliere. Definendo noi irrimediabilmente le spine del palazzo.

Io, come tutti ormai, spero solo che l'isolamento finisca presto. Ma davvero. Per tornare in biblioteca a trascorrervi le mattine libere, nel silenzio di quelle magnifiche sale affrescate. Le corse disperate di Pampino lasciate alle tarme degli armadi, che se provano a lamentarsi le spruzzo d'insetticida o gli apro un blog.


mercoledì 15 aprile 2020

ERBACCE




Non rido di fronte a trasmissioni che mostrano come si trasformerebbe la terra se ad un certo punto, all'improvviso, scomparisse l’uomo che la percorre. Piuttosto mi affascinano. Le cerco nei canali di scienze per seguirle in diretta, oppure le trovo sul web.

Oddio, soffro anche di una qualche perversione che mi porta a vedere pure altre trasmissioni “strane” come quella della dottoressa che schiaccia i brufoli e quella dei dottori che segano le unghie e le dita di piedi disastrati.
Senza parlare di quella dei maniaci dell’igiene che vanno nelle case degli accumulatori compulsivi, nella disperata speranza di rimetterle a posto.
O i tutorial di come ripiegare le cose negli armadi che poi ci provo io e sembra che in camera si sia scatenata la terza guerra mondiale.

Forse se non fossi un maniaco dell’ordine, dell’assenza di difetti non le seguirei.

Però lo faccio. E per ritornare al punto mi piacciono le trasmissioni nelle quale in nostra assenza la natura si riprende il controllo sul pianeta. Le graminacee, il trifoglio e le radici crescono, si inseriscono, sollevano e ricoprono l’asfalto, gli animali fuggiti dallo zoo pascolano indisturbati per le strade delle metropoli americane, le muffe attaccano le travi in legno e le facciate degli edifici crollano. Figo vero?

Deve piacere anche a chi le fa. In verità l'ipotesi non ha nulla di cruento: non si sa cosa sia accaduto per farci vaporizzare tutti allo stesso momento. Semplicemente non ci siamo più e una volta tanto abbiamo avuto il buon senso di non lasciare tracce della nostra partenza, neppure i nostri cadaveri. Potrebbe anche essere un esodo verso il Pianeta delle Meraviglie e di certo non c'è distruzione nucleare nelle immagini.

Mi pare che non sia quello il punto. Si mostra invece quanto sia fugace e assolutamente non imperitura la traccia che potremmo lasciare di noi. Perché alla fine il famoso filo d’erba nascerà nella crepa dell’asfalto e dimostrerà di essere molto più resistente.

Supposizioni? No: immagini dalle cittadine evacuate da anni intorno alla centrale atomica di Chernobyl mostrano chiaramente l’inconsistenza dei nostri manufatti non appena noi giriamo le spalle.

In questi giorni in cui la specie umana gira più per casa che per le strade, almeno così dovrebbe nei centri abitati, un quotidiano ha pubblicato la foto di un filo d’erba a che si era fatto spazio tra i sanpietrini di una piazza di Roma. La didascalia diceva più o meno che per la mancanza di scalpiccio, l’erba sta ricrescendo tra le pietre di Roma.
Mi ha colpito. Mi ha ricordato quei documentari. Ho subito cercato nel piazzale condominiale dove scendo a camminare per la mia ora d’aria tracce di questo movimento di riappropriazione. E c’era infatti qualche bel filo d’erba rigoglioso tra le pietre che compongono il pavimento, che mi guardava dicendo: “Prova a fermarmi”. E alzava arzillo il dito medio.



Oh certo, torneranno presto tutti i condomini a percorrere quel selciato e a far retrocedere nella sicurezza dello spazio tra pietra e pietra il germoglio del seme. Ma il seme resterà lì ad attendere senza fretta la prossima pausa.

E più del filo d’erba ha potuto il glicine della villetta accanto. Esploso nella fioritura emanava un profumo celestiale indipendentemente da chi potesse goderne la bellezza o annusarne l’aroma. Nel silenzio della città era il rumore più forte. Come dire: "Ho fiorito qualunque distanziamento sociale voi stiate affrontando. Che voi godiate oppure no dello spettacolo di questo colore abbondante, io fiorisco e spando profumo. Comunque. Sta a voi coglierne l'attimo come stanno facendo le api".


lunedì 6 aprile 2020

LIEVITATI






Stamani mi sono svegliato con in mente la parola DEPRECABILE. No, non mi pare normale. Soprattutto per uno come me che ha bisogno di qualche ora e parecchi caffè prima di capire se si trova ancora sul pianeta terra.
Deprecabile. Ma da dove è uscita fuori?
Mi sembrava di aver già pagato a sufficienza il distanziamento sociale.
Il subconscio si sarà voluto vendicare del deprecabile ghigno che mi è scappato ieri sera alla notizia del Premier inglese ricoverato dopo i proclami sull'immunità di gregge.

Comincio ad avere paura della mia mente... Domani potrei svegliarmi ossessionato da termini tipo SUPERCALIFRAGILISTICHESPIRALIDOSO, e prima di esserne venuto a capo potrei aver saltato la colazione, rasato i tulipani e avvelenato il pesce rosso.

Però c'è chi sicuramente chi condivide il mio disagio. C'è un'intera parte della popolazione che ha subito una mutazione comica del virus assassino: un esercito nuovo di zecca di pasticceri, pizzaioli e panettieri. Probabilmente infettati durante una coda davanti ad un supermercato i RACCOGLITORI DI LIEVITO si passano le informazioni su dove sia disponibile il magico ingrediente via social e la quantità che è consentito acquistarne. Dopo di che spiegano anche i trucchetti da mettere in pratica per raccoglierne anche 20 panetti per volta. Una di queste invasate spiegava orgogliosa di essere ricorsa a due cambi d'abito ed altrettanti cambi di cassa per portare a casa il bottino...
Di solito guardo queste manifestazioni con imbarazzo e supponenza, stavolta mi sono messo a ridere della pochezza di certe menti: siamo tutti fratelli nel disagio.

Non ghigno di coloro che pasticciano, pizzano e panificano ma dei millantatori: di coloro che in vita loro non hanno mai acceso il forno se non per riscaldare delle lasagne surgelate ed adesso aspettano che la massa lieviti con lo stesso amore di una madre che vede crescere un figlio. Io faccio parte del gruppo perché l’unica cosa che mi lievita bene sono le torte della Benedetta Parodi ed ho ucciso il mio barattolo di lievito madre anni fa.
Mentre il mio compagno, bravo da sempre, ha sformato torte, pizza e pane senza incertezze. E ieri si è trovato a dover condividere con me la delusione di trovare gli scaffali della farina completamente vuoti. L'ho consolato perché son traumi importanti. Soprattutto per me che potrei dover rinunciare al rito della pizza del sabato sera.

Oltre all’effetto emulativo, alla serrata delle pizzerie, alla ahimè vera esigenza di risparmio dovuta dalla mancanza di lavoro, ci si mettono pure i cuochi televisivi, belli, eleganti e soprattutto magri, che decantano le proprietà antistress dell’impastare il pane. Così non ne usciamo dalla DEPRECABILE mancanza di farina e lievito di birra.

Almeno non subito. Alla prossima uscita per andare a procacciare del cibo pianificata per giovedì, noi siamo ligi alla regola di uscire il meno possibile, dovrò sperare di trovare anche quelle cose lì se vorrò la pizza il sabato successivo. Per il pane mi accontenterò di quello che il fornaio vicino a casa continua a produrre senza soluzione di continuità. Che è pure molto più buono di quello che riuscirei a fare io.
Sarà una buona battuta di caccia? Incrocio le dita.




venerdì 3 aprile 2020

IL PRANZO DEL 25' GIORNO




Di sicuro senza smog il cielo di Milano non è più grigio.
Se bastasse questo per essere felici sarei la persona più serena al mondo e zampetterei per il balcone con un cervo imbizzarrito. Giardino non ne ho ed i parchi sono stati recintati.
Ma non è così.

I motivi per non essere felice sono parecchi: per descriverne alcuni bastano solo le immagini trasmesse dai media.

Un motivo anti giubilo personalissimo è che tra le tante cose che circolano in internet in questi giorni farneticanti di tastiera, schermi e social, trovo che quel cartello con su scritto che questa è una pandemia e non un miracolo, e che quindi non troveremo persone migliori alla fine dell'isolamento, sia la somma e la sintesi delle mie inutili speranze attuali. 'Che l'isolamento agli eletti fa crescere l'amore, ai "normali" solo la carogna.

Sono barricato a casa dal primo momento ma non ho ceduto subito al bisogno di mettermi a postare come e quanto bene vivessi la mia separazione dal resto del mondo...
Che se è stata accettabile e riposante i primi giorni, che invece tre giorni fa mi ha fatto essere grato di mettermi in coda davanti al LIDL per far la spesa, sesto in una fila di pensionati che diventava sempre più lunga. Non ho mai creduto di poter essere così riconoscente alla cassiera che mi ha guardato e parlato con una voce diversa da quella del mio compagno, che è l'unica che sento durante il giorno.
Mi ha chiesto: "Vuole un sacchetto?". Ed io mi sono commosso.
Nel frattempo i sanitari del bagno si sono uniti al gruppo rivoluzionario "Povero Psicopatico Stai Lontano Da Noi" per evitare l'estinzione da sfregamento. E la lavatrice ha prenotato le ferie in Dalmazia dove le hanno assicurato si viva solo di bikini e tanga.

A titillare le tastiere c'erano già altri. Parecchi altri, io potevo solo unirmi al mucchio ed essere smaltito nell'umido a fine giornata. Perché la rete è stata subissata dal peso di miliardi di conversazioni inutili, fake-news senza capo né coda, quasi tutte di carattere politico (in vero di un unico versante politico) e migliaia di foto, filmati. Solo di questi ultimi spero restino tracce alla fine della pandemia, perché alcune son davvero gustosi. I registi wannabe che ho visto mi hanno fatto fare parecchie risate.

Allora perché questo post? Per dire cosa? Perché unirsi alla schiera di coloro destinati all'umido di fine giornata?

Perché oggi ho fatto una torta al cioccolato e per postarvi la foto dei rigatoni al pesto (condimento homemade) che ho mangiato a pranzo. Non vedevate l'ora 'nevvero?

;-)



giovedì 25 luglio 2019

PANNA E CIOCCOLATO, E SE C’È ANCHE IL PISTACCHIO


Fotomiafattadame



Ero riuscito a farla salire per la prima volta su un aereo quando i suoi 80 anni erano passati da pochi mesi. Come fu e come non fu, quell’estate io e la nonna Rosa saremmo andati a trovare mia sorella in Canadà (l’accento è voluto, non c’è finito per caso!). Fatto sta che dopo settimane di interlocutorio silenzio/assenso con il quale aveva seguito le operazioni di prenotazione ed acquisto dei biglietti, una mattina all’alba qualcuno ci scaricò da un auto davanti alle porte scorrevoli dell’aeroporto di Fiumicino, area partenze, in mano due biglietti andata e ritorno, per Toronto, via Amsterdam.

La nonna Rosa si chiamava in realtà Giovanna, ma questo solo per l’anagrafe e la carta d’identità. Per il resto del mondo era la Rosa, nome che le fu dato alla nascita perché era bianca e rosea come il fiore del mese della Madonna. Giovanna fu dichiarato al Comune ma finì immediatamente nel dimenticatoio. Per tutto il resto della vita che le fu consentito vivere oltre il marito, e fu la maggior parte, il suo colore fu il nero severo del lutto e della rigida moralità. Nero l’abito che si era fatta cucire per quando sarebbe morta, nere le spolverine che indossava al lavoro in negozio. Affrontò quel primo ed unico volo della sua intera vita con il fatalismo degli anziani, senza gioia apparente, ma anche senza fastidio, certa che se l’aereo si fosse schiantato, lei di sicuro sarebbe finita nel regno dei giusti: quindi che andasse come volesse andare, lei era sistemata anche nell’aldilà; il problema era degli altri. Immagino che si fosse preparata alla mesta eventualità con qualche versamento straordinario alle opere pie che da sempre finanziava con versamenti risicati, o con qualche candela extra accesa nella chiesetta che, da più o nemo un millennio, staziona davanti a casa. Di certo non dormì né all’andata, né al ritorno e rimandò il meritato riposo una volta arrivata a casa.
“Come quando andavo in gita in torpedone con Padre Ernesto”. E così fece, apparentemente immune alla stanchezza, mentre io brancolavo per casa rincoglionito, in cerca del mio fuso orario.
In cambio del pagamento di tutte le spese di viaggio, che si accollò non di malavoglia, ma diciamo con riserbo, ottenne da me la garanzia che se fosse vissuta un altro anno avrei ricambiato la sua magnanimità andando con lei in crociera, anche non lunga, andava bene anche nel Mediterraneo, perché la crociera che era il vero sogno della sua vita, da quando il torpedone di padre Ernesto era stato traghettato in Corsica. Altro che l’aereo e l’America! La nave era “il mezzo di trasporto”! Immagino che dal momento del nostro ritorno abbia lottato con ogni sua fibra per ottenere da me il pagamento di quel pegno, 365 giorni dopo, che abbia sfidato la senescenza con determinazione, e durante la cena col Comandante la sua soddisfazione raggiunse l’acme.

Arrivò in Canadà con la naturalezza e la dignità che l’aveva sempre sostenuta, forse solo un po’ impacciata dal bastone che le era ormai diventato indispensabile. Attraversò i controlli di frontiera, abbracciò i parenti, salì nell’enorme auto di questi e si lasciò trasportare fino alla loro casa, dove sedette composta fino all’ora di cena. Dopo un pasto frugale si coricò presto per smaltire il fuso orario.
Mentre lei faceva tutto questo, io crollavo fisicamente sotto il peso dei miei pochi anni. De Vas Ta To!


La mattina dopo il nostro arrivo cominciò la visita della metropoli.
Forte della mia precedente esperienza di vita vissuta proprio lì i parenti mi avevano affidato una macchina per scorrazzare la Vecchia e farle visitare la città: un 6000cc di cilindrata, scattante come un Lama in meditazione ma fornita di tutti i confort. La città, a dirla tutta, all’epoca non ci voleva tanto tempo per visitarla, ma comunque offriva spunti interessanti. Nel mio programma c’erano la visita alla Torre CN, allora l’edificio più alto del mondo, magari un traghetto per le isole nella baia, un tour senza tema per la città per ammirare le strade di Little Italy e China Town e qualche centro commerciale di dimensioni ragguardevoli, in un tempo in cui i centri commerciali in Italia non si sapeva quasi che cosa fossero. Oltre a queste cose avevo inserito nel programma un’immancabile vista di un giorno alle cascate del Niagara e un paio di brevissime escursioni a piedi nei grandi parchi che inverdiscono e rinfrescano la città, perché li sapevo pieni di aiuole fiorite, ed alla Vecchia i fiori piacevano tantissimo: memore del suo nome posticcio aveva collezioni di vasi interrati e fioriti che curava personalmente con caparbietà. Si poteva andare in visita in un paese famoso nel mondo per gli spazi infiniti, le foreste, i colori autunnali, senza vedere almeno il manto erboso di un prato cittadino? Scoprì che si poteva fare, ah se lo si poteva fare!

Perché mentre nei miei programmi il giardino era inserito, in quelli di mia nonna era stato depennato dopo la visione pomeridiana di un documentario televisivo in cui si mostrava voyeuristicamente l’affollato accoppiamento del serpente giarrettiera, bestiaccia autoctona che ama formare mucchi infiniti di serpenti maschi, aggrovigliati l’uno sull’altro, impegnati nell’intento di fecondare  l'unica femmina che se ne sta tranquilla, in attesa, al centro del gruppo. Forse solo un po’ schiacciata. Si trattava di immagini impressionati, di fossati riempiti da queste masse verminanti e, perdonatemi, abbastanza schifose in cui si dimostra che la necessità di riprodursi è un motore irresistibile nella vita di ogni essere vivente. Ma la loro imponenza numerica avevano fatto depennare escludere a mia nonna la possibilità di qualsiasi escursione su un manto tenero, peloso e fiorito che non fosse di moquette. E non si pensi che il rifiuto fosse dovuto unicamente per la questione di tutto quel sesso praticato all’aperto, che già di per sé ne avrebbe giustificato un allontanamento da lei, così estranea all’argomento, ma metti che in quel momento la massa si fosse sciolta e tutte quelle bisce innocue si trovassero disoccupate e a zozzo?

Con cosa sostituire allora quella visita che nei miei piani doveva occupare almeno un giorno intero? Optai per l’ennesima visita ad un centro commerciale con aria condizionata e panchine dove parcheggiarla in caso di stanchezza.
Fu così che la portai a passeggiare nei chilometri di viali coperti chiamati Yorkdale, poco a sud della casa di mia sorella e del marito, dove passammo il primo di tutti gli altri pomeriggi a disposizione. Durante la prima escursione tra le vetrine che le ispiravano sovrana indifferenza, ci sedemmo su una panchina piazzata all’ingresso ad angolo di una gelateria: si chiamava, e credo si chiami ancora “Robin’s 31 basket”. Un franchising. Il numero dei basket(s), credo stesse ad indicare il numero dei gusti disponibili nel bancone dei golosi. Un numero fantasmagorico di sapori per noi abituati al Mottarello, al cornetto Algida, alla Coppa del Nonno e a non molto di più. Noi che consideravamo esotico il gusto yogurt e che comunque la panna all’interno del cono non si immaginava neppure si potesse mettere.
La nonna non si lasciò scomporre dall’abbondanza, che in cuor suo ha sempre giudicato superflua. Domandò se avevano panna e cioccolato, tirò fuori il borsellino (i soldi li teneva lei, nessuna concessione neppure alla valuta straniera), mi dette un qualche foglio in dollari e mi disse: “Per me panna e cioccolato”, punto. “E se c’è anche il pistacchio”, punto.

Eseguì un ordine che non ammetteva appelli, di quelli che solo lei era capace ad impartire e che io da piccolo pensavo arrivassero non dalla sua bocca, ma dalla mitica acconciatura a crocchia che portò fino a che le infermiere che l’accudivano, non decisero di tagliargliela per far spazio ad un’acconciatura più pratica. Quando le fu tagliata quella, ci rendemmo conto che era irrimediabilmente finita un’epoca e che quella donna minuta, un po’ storta dagli anni, che ci stava davanti con uno strano caschetto sale e pepe, come Sansone coi capelli aveva perso l’autorità di comandare tutto e tutti. Non ci spaventava più.

Le portai il gelato che aveva richiesto, più uno per me e restammo a mangiarlo sulla panchina. Il pistacchio non c’era, quindi ebbe panna e cioccolato. Li mangiò nel silenzio tipico di chi gode di delizie che di rado si concede. Volle assaporare fino all’ultima sfumatura di gusto. Sgranocchiò soddisfatta anche il cono, mentre io mi rendevo conto che non avevo mangiato niente di più artificiale, insapore ed inutilmente dolce.
Lei invece lo definì buono, mentre si asciugava la bocca con il fazzolettino di stoffa che teneva sempre infilato nella manica sinistra del cardigan, giacca che la proteggeva dall’arroganza dell’aria condizionata.
 “Prendimene un altro. Uguale, ma stavolta in coppetta”. Punto.
Mi feci riconsegnare i soldi e ripartì all’attacco del bancone: il cono non doveva esserle piaciuto.
Che fosse golosa lo si sospettava già da tempo, ma non se ne erano mai potute raccogliere le prove: per anni si era mostrata come una donna in grado di affrontare a testa alta le più ardue rinunce alimentari, a causa di malattie più o meno gravi, più o meno reali, sempre sopportate con l’aiuto del medico, e mettendo in atto una strenua rinuncia al lusso alimentare, cibando il povero corpo con minestrine cotte in acqua e zucchine, carni tritate cotte nell’olio, di proverbiale tristezza. Per anni la stessa dieta: pranzo e cena. Senza variazioni e concessioni alla gola. 
Ma del resto il personaggio che incarnava non si discostava molto da quello che finiva sul suo piatto: vigorosa donna d’altri tempi, due guerre mondiali viste passare lungo il corso della sua lunga vita, pochi abiti e gioielli di uno stile che potesse sconfiggere la vanità delle mode, aveva fatto della ferrea determinazione a far soldi e a vivere secondo i canoni di una rispettabilità inattaccabile, il baluardo a cui aggrapparsi senza nessun tentennamento. La regola monastica cercò di imporla con alterne fortune anche al resto della famiglia di cui era riconosciuta il Capo anche dall’ufficio anagrafe. 

Quali sconquassi questa gestione aveva portato nel nostro vivere di ogni giorno, quali contraddizioni, quali conflitti vivevamo confrontandoci col mondo che cambiava intorno a noi, potrei passare dei mesi ad elencarli. Non lasciò mai passare neppure un filo di luce di modernità. Modernità fonte per lei, di tutti gli abbrutimenti morali e materiali del mondo che la circondava. Ma a quanto vedevo in quel centro commerciale una breccia al piacere si stava scavando; le mura non erano più salde come un tempo. La crepa concessa al piacere del palato, annunciava un crollo? Ero venuto in possesso della madre di tutte le rivelazione e non vedevo l’ora di spargerla in giro. Il gelato era la chiave!

E poi non c’è molto altro da aggiungere. Per quello che restò del breve periodo che ci vide in Nord America, passammo i pomeriggi a cercare un gelato da leccare, mentre il mondo che continuava a vivere normalmente ci trovava lì in mezzo ai piedi, con la nostra coppetta in mano in una mall. Nessun altro luogo divenne interessante agli occhi della donna che aveva visto passare otto Papi (3 Pio, 1 Benedetto, 1 Giovanni, 1 Paolo e 2 Giovanni Paolo) e tutti i presidenti repubblicani, se non la gelateria con quel mitico nome di abbondanza di cui osava solo due gusti, massimo tre.

 Io spesi gongolante il mio bottino di delazione non appena rimisi piede in Italia, come un Massone nella congrega. A goderne fu anche la Vecchia che si trovò, in maniera del tutto involontaria, ad essere descritta più umana, e che da quel giorno vide misteriosamente transitare nel frigo barattoli di gelato, che non respinse più come simboli di inutile lusso e spreco. La breccia non era stata richiusa!
Quello che non poté cambiare la lunga malattia che seguì quei due viaggi lo fece il gelato, pappa reale dell’ape regina che regnava su di noi. Da allora è per sempre restai in debito col Canadà, il paese con l’accento. E con la nonna.

sabato 18 maggio 2019

LE OPINIONI DELLA ZIA






Le opinioni ce le portiamo dietro come un bagaglio personale di cui difficilmente vogliamo disfarci. Sono parte del nostro bagaglio, del nostro essere uomini e donne, le formiamo attraverso l'educazione, il vissuto, l'ambiente circostante e, una volta formate, si istallano in noi ad incastro con gli altri pezzi del nostro pensare, come un mattoncino Lego nella facciata della casetta che stiamo costruendo. E purtroppo, pur essendo nostra personale certezza, spesso non sono la verità. Proprio perché spesso le opinioni non si basano su approfondimenti e ricerche, ma su dati parziali. E allora la pancia la fa da padrona.

Però già il fatto che ognuno abbia le proprie, garantisce pluralismo di idee. A volte sbagliate ma comunque idee.

Allora c'è chi reputa che il rosso sia migliore del nero, chi la Juve meglio del Milan, chi preferisce i gatti ai cani, chi la montagna al mare, le capitali alle colline spopolate. Chi preferisce prendersi cura degli anziani evitando che cappottino col deambulatore, piuttosto che assicurarsi che i giovani non si ammazzino in discoteca.
Opinioni e quindi preferenze.

Anche di fronte ai fatti della vita si vedono le cose in prospettiva diversa a seconda di quanto si sia coinvolti nei fatti che ci accadono attorno, ed in quale modo.
Per esempio la casa di riposo dove vive la zia del mio amico ha fatto le condoglianze ai parenti di una ricoverata deceduta durante la notte: questi, tristi per la perdita, si apprestavano a compiere tutti i tristi doveri dati dalle necessità del momento.
Essendo la deceduta a una signora che durante la notte si lamentava in maniera pesante ed a volume alto, così alto da impedire il riposo degli altri degenti a partire dalle 4 del mattino, l'opinione della zia è stata invece scevra da qualunque considerazione sentimentali: "Almeno adesso di dorme!".

Perché nell'opinione della zia quella signora era una mera rompi balle.


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giovedì 16 maggio 2019

SALONE





Se escludo i magnifici scorci di Torino goduti in questi due giorni passati nella prima Capitale del Regno, la sempre bella frequentazione di amici che, generosamente, riescono sempre a trovare tempo da dedicarmi, il bottino del Salone del Libro è quasi omeopatico: un audiolibro.
Delle migliori edizioni di audiolibro che conosco, ma un audiolibro. Ah, vorrei aggiungere: delle edizioni in formato grande, convenzionale, non in quelle piccole, nuove, formato CD riservate dalla casa editrice ai titoli di maggior successo e vendute a prezzi più bassi.

Soddisfatto di non aver appesantito il bagaglio che dovrà tirarmi dietro per altri tre giorni, sono a Torino per lavoro, e deluso per non aver visto nulla che mi portasse alla frenesia dell'acquisto. A parte l'audio libro letto dalla magistrale Cortellesi. Credo sia colpa del corso intensivo e ripetitivo della nipponica Mari Kondo se ho resistito con facilità  alle rare tentazioni.

Non ho acquistato ma il Salone mi è piaciuto. Un po' come andare in pasticceria ed essere a dieta. Tanta gente, tanti giovani alla faccia di quelli che dicono che loro non leggono. Sono loro più degli adulti che si intestardiscono a leggere la carta stampata e fanno, diligenti, la coda per farsi autografare il libro dei vampiri o dei draghi dall'autore/autrice. Il tutto finisce con un selfie rubato da chi ha ricevuto dedica ed autografo, a chi ha firmato perché, va bene la firma sulla terza di copertina, ma vuoi mettere una foto testimonianza da pubblicare sui social? Fosse solo lo stato di Whatsapp... Comunque meglio un selfie con l'autore che uno col politico di turno... Almeno le parole qui si pensano e si leggono, non si bevono urlate da un palchetto con microfoni ed altoparlanti che fischiano.

Bella la sfilata di piccoli editori, un numero infinito, ed un numero infinito di argomenti e intenzioni da pubblicare. E la domanda che sorge spontanea è se ci sia mercato per tutti. Tra di loro anche Poste Italiane, Esercito, Marina, Musei Vaticani e lui, l'INPS, un enorme stand angolare da cui si poteva accedere a numerosi servizi telematici. E neppure un libello pubblicato, tanto per restare in tema Salone. Anche solo di istruzioni per la richiesta della pensione di reversibilità .
Tra i piccoli editori anche chi fa proseliti tra aspiranti autori: la mia diffidenza monta come la panna nel latte a bollore anche se c'è chi non sembra volerti chiedere soldi.

Ho passeggiato qualche ora prima di accorgermi che mancava qualcosa: questo enorme spazio di libri non profuma affatto di libri. Chi si aspettasse un odore di biblioteca o di libreria metropolitana resta deluso. Spazzi troppo ampi disperdono il tipico sentore di carta ed inchiostro ed in alcuni punti, il pestilenziale odore di cibo, si mangia anche qua una notevole quantità di junk food, ha reso alcuni stand impraticabili: sembrava di stare in una friggitoria. Ma ne valeva comunque la pena tornare appestato in hotel.

Ho saltato a piè pari gli stand cinese e romeno, non me ne vogliano. Poi, uscito fuori, esaltato dalla quantità di libri che ho potuto vedere, toccare, immaginare, chi ti trovo? La tenerezza infinita del gazebo dei Testimoni di Geova. Che con le loro pubblicazioni non potevano stare dentro? Editori cattolici dai sorrisi smaglianti che regalano segnalibro stampati con pesci e ne avevo incontrati. Loro no. Loro fuori a distribuire varie traduzioni della Torre di Guardia. E sorrisi imbonitori.
Non so se più effetto "La volpe e l'uva", o più "Vi aspetto fuori".


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