martedì 12 luglio 2011

WASHINGTON-FRANZEN




La solita illuminazione che, arrivata inaspettata, ma soprattutto mai cercata, che condivido.

Il caldo, la noia di un pomeriggio passato rinchiuso, hanno contribuito insieme ad altri fattori esterni a questa minima epifana dei neuroni abbacchiati dal calor bianco di questo giorno.

Insomma, leggendo il libro illustrato qui a fianco, ho compreso perché mi piace tanto Washington. O almeno mi piaceva quando la frequentavo per lavoro.
E' capitato sovente di passeggiare per quei lunghi viali alberati e non. E di provare quasi un senso di elegante riconciliazione con i baccani stradali nostrani; un senso di pace in una città non grande, che non pareva mettersi in subbuglio neppure la mattina in cui passò l'auto Presidenziale con Laura e George W., forse di ritorno dalla funzione domenicale; un quieto susseguirsi di facciate e monumenti che invitano alla riflessione più che allo sconcerto delle metropoli iper-attivate dal denaro. Non che lì non ne passi, ma il suo pare più un passaggio meno isterico e, soprattutto, meno sbandierato. Un senso di appartenenza addirittura con tutti quei monumenti a guerre sparsi per chilometri, che ci appartengono solo in parte come popolo, ma totalmente come portatori sani di memoria.

it.123rf.com

Dopo la cartina ecco il passo di J. Franzen, tratto da "Libertà", ed. Einaudi, che mi ha colpito - uno dei tanti perché dacché leggo il libro continuo a pubblicare su Faccialibro frasi dello stesso:

"Malgrado avesse suonato abbastanza spesso a Washington nel corso degli anni, l'orizzontalità e i fastidiosi viali di quella città lo mandavano in paranoia. Si sentiva un topo prigioniero in un labirinto governativo".

Ecco qua. Poche parole per spiegare quello che non era richiesto spiegare. Ma un "precisino" come me, al contrario del personaggio del rocker Katz, dove può star più comodo che in una città tutta ordine e viali? Manco in campagna a pettinare i fili d'erba tutti in un verso.

Anche se trattasi di città straniera nel senso più vero del termine, perché seppur comodo, la sensazione che ho avuto, è sempre stata quella di NON appartenenza a quel luogo. Il che consente, come scriveva qualcun altro di cui non ricordo il nome, di provare la meravigliosa sensazione di leggerezza che solo le città che non viviamo ogni giorno, ci donano proprio perché le abbandoneremo.

Fatto. Spiegato. Peccato.

4 commenti:

titina ha detto...

Bravo Cigs (ma si, bravo anche Franzen...)

Melinda ha detto...

‎"Uno dei piaceri del viaggio è immergersi dove gli altri sono destinati a risiedere, e uscirne intatti, riempiti dell'allegria maligna di abbandonarli alla loro sorte."
Jean Baudrillard

Ecco la frase a cui mi riferisco verso la fine rubata all'amica Gabriella.

UnoQualunque ha detto...

Franzen è uno dei tre autori che in questo periodo guardo-non guardo, chiedendomi se iniziare o no. Ma di questo romanzo (come, anche, de 'Le correzioni') mi immobilizza la massa.

...e di quelle città in cui ci si vorrebbe trasferire, per abbandonare alla propria sorte, con allegria maligna, quelle conosciute?
elyar

titina ha detto...

@1qq: non insisto su Franzen, ma se un giorno decidi di leggere Le correzioni fammi sapere.
Quello che vorrei dirti è che hai "girato" la frase di Baudrillard alla grande, ed è un sentimento suggerito che condivido