Fotomiafattadame
Ero riuscito a farla salire per la prima volta su un aereo quando i suoi 80 anni erano passati da pochi mesi. Come fu e come non fu, quell’estate io e la nonna Rosa saremmo andati a trovare mia sorella in Canadà (l’accento è voluto, non c’è finito per caso!). Fatto sta che dopo settimane di interlocutorio silenzio/assenso con il quale aveva seguito le operazioni di prenotazione ed acquisto dei biglietti, una mattina all’alba qualcuno ci scaricò da un auto davanti alle porte scorrevoli dell’aeroporto di Fiumicino, area partenze, in mano due biglietti andata e ritorno, per Toronto, via Amsterdam.
La nonna Rosa si chiamava in realtà Giovanna, ma questo solo per l’anagrafe e la carta d’identità. Per il resto del mondo era la Rosa, nome che le fu dato alla nascita perché era bianca e rosea come il fiore del mese della Madonna. Giovanna fu dichiarato al Comune ma finì immediatamente nel dimenticatoio. Per tutto il resto della vita che le fu consentito vivere oltre il marito, e fu la maggior parte, il suo colore fu il nero severo del lutto e della rigida moralità. Nero l’abito che si era fatta cucire per quando sarebbe morta, nere le spolverine che indossava al lavoro in negozio. Affrontò quel primo ed unico volo della sua intera vita con il fatalismo degli anziani, senza gioia apparente, ma anche senza fastidio, certa che se l’aereo si fosse schiantato, lei di sicuro sarebbe finita nel regno dei giusti: quindi che andasse come volesse andare, lei era sistemata anche nell’aldilà; il problema era degli altri. Immagino che si fosse preparata alla mesta eventualità con qualche versamento straordinario alle opere pie che da sempre finanziava con versamenti risicati, o con qualche candela extra accesa nella chiesetta che, da più o nemo un millennio, staziona davanti a casa. Di certo non dormì né all’andata, né al ritorno e rimandò il meritato riposo una volta arrivata a casa.
“Come quando andavo in gita in torpedone con Padre Ernesto”. E così fece, apparentemente immune alla stanchezza, mentre io brancolavo per casa rincoglionito, in cerca del mio fuso orario.
In cambio del pagamento di tutte le spese di viaggio, che si accollò non di malavoglia, ma diciamo con riserbo, ottenne da me la garanzia che se fosse vissuta un altro anno avrei ricambiato la sua magnanimità andando con lei in crociera, anche non lunga, andava bene anche nel Mediterraneo, perché la crociera che era il vero sogno della sua vita, da quando il torpedone di padre Ernesto era stato traghettato in Corsica. Altro che l’aereo e l’America! La nave era “il mezzo di trasporto”! Immagino che dal momento del nostro ritorno abbia lottato con ogni sua fibra per ottenere da me il pagamento di quel pegno, 365 giorni dopo, che abbia sfidato la senescenza con determinazione, e durante la cena col Comandante la sua soddisfazione raggiunse l’acme.
Arrivò in Canadà con la naturalezza e la dignità che l’aveva sempre sostenuta, forse solo un po’ impacciata dal bastone che le era ormai diventato indispensabile. Attraversò i controlli di frontiera, abbracciò i parenti, salì nell’enorme auto di questi e si lasciò trasportare fino alla loro casa, dove sedette composta fino all’ora di cena. Dopo un pasto frugale si coricò presto per smaltire il fuso orario.
Mentre lei faceva tutto questo, io crollavo fisicamente sotto il peso dei miei pochi anni. De Vas Ta To!
La mattina dopo il nostro arrivo cominciò la visita della metropoli.
Forte della mia precedente esperienza di vita vissuta proprio lì i parenti mi avevano affidato una macchina per scorrazzare la Vecchia e farle visitare la città: un 6000cc di cilindrata, scattante come un Lama in meditazione ma fornita di tutti i confort. La città, a dirla tutta, all’epoca non ci voleva tanto tempo per visitarla, ma comunque offriva spunti interessanti. Nel mio programma c’erano la visita alla Torre CN, allora l’edificio più alto del mondo, magari un traghetto per le isole nella baia, un tour senza tema per la città per ammirare le strade di Little Italy e China Town e qualche centro commerciale di dimensioni ragguardevoli, in un tempo in cui i centri commerciali in Italia non si sapeva quasi che cosa fossero. Oltre a queste cose avevo inserito nel programma un’immancabile vista di un giorno alle cascate del Niagara e un paio di brevissime escursioni a piedi nei grandi parchi che inverdiscono e rinfrescano la città, perché li sapevo pieni di aiuole fiorite, ed alla Vecchia i fiori piacevano tantissimo: memore del suo nome posticcio aveva collezioni di vasi interrati e fioriti che curava personalmente con caparbietà. Si poteva andare in visita in un paese famoso nel mondo per gli spazi infiniti, le foreste, i colori autunnali, senza vedere almeno il manto erboso di un prato cittadino? Scoprì che si poteva fare, ah se lo si poteva fare!
Perché mentre nei miei programmi il giardino era inserito, in quelli di mia nonna era stato depennato dopo la visione pomeridiana di un documentario televisivo in cui si mostrava voyeuristicamente l’affollato accoppiamento del serpente giarrettiera, bestiaccia autoctona che ama formare mucchi infiniti di serpenti maschi, aggrovigliati l’uno sull’altro, impegnati nell’intento di fecondare l'unica femmina che se ne sta tranquilla, in attesa, al centro del gruppo. Forse solo un po’ schiacciata. Si trattava di immagini impressionati, di fossati riempiti da queste masse verminanti e, perdonatemi, abbastanza schifose in cui si dimostra che la necessità di riprodursi è un motore irresistibile nella vita di ogni essere vivente. Ma la loro imponenza numerica avevano fatto depennare escludere a mia nonna la possibilità di qualsiasi escursione su un manto tenero, peloso e fiorito che non fosse di moquette. E non si pensi che il rifiuto fosse dovuto unicamente per la questione di tutto quel sesso praticato all’aperto, che già di per sé ne avrebbe giustificato un allontanamento da lei, così estranea all’argomento, ma metti che in quel momento la massa si fosse sciolta e tutte quelle bisce innocue si trovassero disoccupate e a zozzo?
Con cosa sostituire allora quella visita che nei miei piani doveva occupare almeno un giorno intero? Optai per l’ennesima visita ad un centro commerciale con aria condizionata e panchine dove parcheggiarla in caso di stanchezza.
Fu così che la portai a passeggiare nei chilometri di viali coperti chiamati Yorkdale, poco a sud della casa di mia sorella e del marito, dove passammo il primo di tutti gli altri pomeriggi a disposizione. Durante la prima escursione tra le vetrine che le ispiravano sovrana indifferenza, ci sedemmo su una panchina piazzata all’ingresso ad angolo di una gelateria: si chiamava, e credo si chiami ancora “Robin’s 31 basket”. Un franchising. Il numero dei basket(s), credo stesse ad indicare il numero dei gusti disponibili nel bancone dei golosi. Un numero fantasmagorico di sapori per noi abituati al Mottarello, al cornetto Algida, alla Coppa del Nonno e a non molto di più. Noi che consideravamo esotico il gusto yogurt e che comunque la panna all’interno del cono non si immaginava neppure si potesse mettere.
La nonna non si lasciò scomporre dall’abbondanza, che in cuor suo ha sempre giudicato superflua. Domandò se avevano panna e cioccolato, tirò fuori il borsellino (i soldi li teneva lei, nessuna concessione neppure alla valuta straniera), mi dette un qualche foglio in dollari e mi disse: “Per me panna e cioccolato”, punto. “E se c’è anche il pistacchio”, punto.
Eseguì un ordine che non ammetteva appelli, di quelli che solo lei era capace ad impartire e che io da piccolo pensavo arrivassero non dalla sua bocca, ma dalla mitica acconciatura a crocchia che portò fino a che le infermiere che l’accudivano, non decisero di tagliargliela per far spazio ad un’acconciatura più pratica. Quando le fu tagliata quella, ci rendemmo conto che era irrimediabilmente finita un’epoca e che quella donna minuta, un po’ storta dagli anni, che ci stava davanti con uno strano caschetto sale e pepe, come Sansone coi capelli aveva perso l’autorità di comandare tutto e tutti. Non ci spaventava più.
Le portai il gelato che aveva richiesto, più uno per me e restammo a mangiarlo sulla panchina. Il pistacchio non c’era, quindi ebbe panna e cioccolato. Li mangiò nel silenzio tipico di chi gode di delizie che di rado si concede. Volle assaporare fino all’ultima sfumatura di gusto. Sgranocchiò soddisfatta anche il cono, mentre io mi rendevo conto che non avevo mangiato niente di più artificiale, insapore ed inutilmente dolce.
Lei invece lo definì buono, mentre si asciugava la bocca con il fazzolettino di stoffa che teneva sempre infilato nella manica sinistra del cardigan, giacca che la proteggeva dall’arroganza dell’aria condizionata.
“Prendimene un altro. Uguale, ma stavolta in coppetta”. Punto.
Mi feci riconsegnare i soldi e ripartì all’attacco del bancone: il cono non doveva esserle piaciuto.
Che fosse golosa lo si sospettava già da tempo, ma non se ne erano mai potute raccogliere le prove: per anni si era mostrata come una donna in grado di affrontare a testa alta le più ardue rinunce alimentari, a causa di malattie più o meno gravi, più o meno reali, sempre sopportate con l’aiuto del medico, e mettendo in atto una strenua rinuncia al lusso alimentare, cibando il povero corpo con minestrine cotte in acqua e zucchine, carni tritate cotte nell’olio, di proverbiale tristezza. Per anni la stessa dieta: pranzo e cena. Senza variazioni e concessioni alla gola.
Ma del resto il personaggio che incarnava non si discostava molto da quello che finiva sul suo piatto: vigorosa donna d’altri tempi, due guerre mondiali viste passare lungo il corso della sua lunga vita, pochi abiti e gioielli di uno stile che potesse sconfiggere la vanità delle mode, aveva fatto della ferrea determinazione a far soldi e a vivere secondo i canoni di una rispettabilità inattaccabile, il baluardo a cui aggrapparsi senza nessun tentennamento. La regola monastica cercò di imporla con alterne fortune anche al resto della famiglia di cui era riconosciuta il Capo anche dall’ufficio anagrafe.
Quali sconquassi questa gestione aveva portato nel nostro vivere di ogni giorno, quali contraddizioni, quali conflitti vivevamo confrontandoci col mondo che cambiava intorno a noi, potrei passare dei mesi ad elencarli. Non lasciò mai passare neppure un filo di luce di modernità. Modernità fonte per lei, di tutti gli abbrutimenti morali e materiali del mondo che la circondava. Ma a quanto vedevo in quel centro commerciale una breccia al piacere si stava scavando; le mura non erano più salde come un tempo. La crepa concessa al piacere del palato, annunciava un crollo? Ero venuto in possesso della madre di tutte le rivelazione e non vedevo l’ora di spargerla in giro. Il gelato era la chiave!
E poi non c’è molto altro da aggiungere. Per quello che restò del breve periodo che ci vide in Nord America, passammo i pomeriggi a cercare un gelato da leccare, mentre il mondo che continuava a vivere normalmente ci trovava lì in mezzo ai piedi, con la nostra coppetta in mano in una mall. Nessun altro luogo divenne interessante agli occhi della donna che aveva visto passare otto Papi (3 Pio, 1 Benedetto, 1 Giovanni, 1 Paolo e 2 Giovanni Paolo) e tutti i presidenti repubblicani, se non la gelateria con quel mitico nome di abbondanza di cui osava solo due gusti, massimo tre.
Io spesi gongolante il mio bottino di delazione non appena rimisi piede in Italia, come un Massone nella congrega. A goderne fu anche la Vecchia che si trovò, in maniera del tutto involontaria, ad essere descritta più umana, e che da quel giorno vide misteriosamente transitare nel frigo barattoli di gelato, che non respinse più come simboli di inutile lusso e spreco. La breccia non era stata richiusa!
Quello che non poté cambiare la lunga malattia che seguì quei due viaggi lo fece il gelato, pappa reale dell’ape regina che regnava su di noi. Da allora è per sempre restai in debito col Canadà, il paese con l’accento. E con la nonna.