continua la pubblicazione delle scritte bizzarre
1- spazzacamino;
2- traslocatore;
3- coibetatore;
4- (ma soprattutto) uomo di fatica tanto elegante.
Non ho finito con le soffitte, me ne manca una, quella che si trova esattamente sopra la mia camera da letto: una cella frigorifera naturale che riflette tutto il suo gele nella stanza di sotto. La cosa bizzarra è che, per un po' di anni, la soffitta fu fatta abitare ad una zia altrettanto bizzarra, che poi, troppo strana anche per la mia famiglia, fu sistemata in casa di riposo e lì rimase fino alla morte; e che non so come, poveraccia, non tirò il calzino il primo inverno in soffitta, dove tra l'altro dormiva anche nel mitico inverno del '56, in cui, con la forza dell'autorità, tutti i neonati che non disponevano di riscaldamento in casa, furono trasferiti negli ospedali.
Senza riscaldamento la vecchia zia sopravvisse alla neve, all'inverno, ma poco dopo venne sfollata in un luogo più asettico e meno familiare.
Sulla vecchia circolano notizie non comprovate di amori giovanili intollerabili alla famiglia, mentre si hanno invece notizie certe di un suo internamento in un convento di clausura da cui fu fatta uscire in fretta e furia per poca stabilità mentale.
Azzardo un ipotesi: se non ci andò di sua sponte tra quelle mura murate, non potrebbe essere quest'instabilità una conseguenza di tale forzatura?
Vorrei saperne di più, ma nessun presente ne sa molto; chi allora sapeva non parlava, adesso chi sapeva non c'è più.
Insomma, torniamo alla lana di vetro ed ai pannelli di poliuretano: mi è rimasta una sola stanza da mettere a punto. Dopo di che si dovranno aspettare altri soldini da investire in finestre per le innumerevoli bocche di areazione che si aprono nel sottotetto. Ma per quelle dovrò aspettare.
La lana di vetro non è così fetente come la dipingono, sono peggio le capocciate che continuo a battere senza soluzione di continuità sugli spioventi del tetto. E sì che son lì dentro da più di una settimana.
Mentre sbattevo con martelli e cacciaviti nel sottotetto, sono tornate alla luce mobili e oggetti dimenticati.
Lavoravo tra la fascinazione di cose che riemergevano da polvere e oblio, cose che magari erano state messe lì proprio da me.
Non mi sono dato all'apertura di sportelli, ma il contatto fisico obbligato con un sacco di oggetti - ci strisciavo sopra, a fianco, in mezzo, sotto - li ha resi nuovamente reali.
E la sera la cosa strepitosa era raccontare con meraviglia a Pips, lontanissimo in chilometri, cosa avevo scoperto essere nel tal posto, e sentirmi dire con la precisione di un geologo: "Certo che stava lì. Perché non lo sapevi? Ma se ce lo avevi messo tu".
Beffa! Io qui sotto, proprietario, non ricordo nulla. Lui in Sicilia, sfollato, ha memoria fotografica e millimetrica di quanto c'è.
Mi aveva addirittura avvisato al telefono di una finestrella aperta... Era vero.
Ma come faceva?
Quando sarà finita la parte faticosa, arriverà quella ludica. Cioè lo svuotamento delle stanze dalle cose inutili. Ci sono secoli di reperti buttati lì solo per paura che un giorno possano nuovamente servire. Solo che poi quando servono davvero e non ci ricordiamo che ci sono già. E li ricompriamo. In un assurda giostra di svuotamento ed accumulo.
Operazione nella quale sono maestro.
Fortuna che senza sensi di colpa riesco a buttare via di tutto. E anche stavolta ho visto cosette che fanno al caso mio... Ho cominciato con il mio casco da cavallerizzo, inutilizzato da decenni. Violà, sparito nel primo pomeriggio quando mi sono preso una pausa per andare a fare la spesa.
Lo acquistai insieme ad un tot di lezioni di equitazione in un momento in cui volevo che la mia vita reale assomigliasse quanto più possibile a quella fantastica di "Maurice" Foster/Ivory.
Poi capì che il cavallo era decisamente più impegnativo che romantico, e che la Toscana dove vivo era ben lontana dalla piatta brughiera inglese. Come feci? Cadendo dalla bestia un paio di volte di troppo.
Col casco sono spariti già un impianto stereo che non funzionava (epoca 1993), una valigia presa con i punti Esso e MAI usata (per capire quanto fosse pratica), un numero svariato di quadretti a giorno non più utilizzabili, mentre altri sono stati messi da parte per essere regalati al prossimo mercatino di beneficenza.
Insomma, dalla coibentazione allo scavo.
Che lavoro!
Ps: delle foto nessuna traccia...
2 commenti:
Beato te, che riesci a buttare via senza sensi di colpa...
Però che bello: quello che stai facendo per me ha di solito anche un gran potere terapeutico...E la fatica, alla fine della giornata, ha forse un senso...o no?
Anche io, a quanto pare, ebbi un parente 'bizzarro' (grandiosa, fra le etichette al post 'zia bizzarra'!), morto addirittura suicida e c'è, da quando l'ho scoperto, un alone di mistero al riguardo. Io qualche idea me la sono fatta. Per questo ho pensato di scrivere - novella Fallaci - anche io, che so, 'Un cappello pieno di arance' (se non fosse che in un cappello, bene che vada, ce ne vanno forse 3-4, di arance)...
Buona coibentazione (di cui ho testé imparato il significato)! :-)
cousl
Se si tratta di arance urge cappello: qui abbiamo le ciliegie e basta una veletta per fare un'indigestione, immagina un cappello.
Sì, in effetti la fatica è terapeutica. Senza andare oltre almeno la giornata non risulta completamente persa. In più il lavoro fisico impone una ri-programmazione della giornata lontana dai soliti ritmi che si mordono ormai la coda. E poi guardo il tutto e dico: l'ho fatto io, ne sono stato capace!!!
Non ultimo, in questi tempi di crisi nera, anzi nerissima, investire nel risparmio non mi pare una cazzata (scusa il francesismo). La natura avrà meno emissioni e il mio portafogli più quattrini!
Posta un commento